La pesante assenza di Diop, bloccato a Dakar dal primo sciopero dei trasporti della storia senegalese, ci costringe a casa per buona parte del giorno.
La notte ci ha provati considerevolmente, nonostante la stanchezza, visti i nostri giacigli improvvisati con gli immancabili materassi in pura gommapiuma: 5 centimetri di piacere puro (durati più o meno mezz’oretta, per cedere il passo a un mal di schiena galoppante).
Dunque, pranziamo come al solito a base di riso e pesce (il Thiep-bou-Dien), trovando come unica valvola di sfogo del primo pomeriggio quella di rendere ingestibili i piccoli studenti della scuola coranica (Madrasa), che sorge adiacente a casa nostra.
Al grido di “Tubab! Tubab!” (“uomo bianco” in lingua Wolof), ci prendiamo la briga di dirigere le coreografie improvvisate dai bambini, solitamente diligentissimi, che paiono non accorgersi nemmeno degli insegnanti che tentano disperatamente di mantenere il controllo della situazione.
Dopo questa simpatica parentesi, ci rendiamo definitivamente conto che senza un po’ di iniziativa da parte nostra sacrificheremo completamente una giornata. Quindi, gambe in spalla e decidiamo di tirare dritto per una strada sabbiosa in mezzo alla savana, diretti verso l’ignoto.
Dopo circa un’ora di passeggiata nell’afa del tardo pomeriggio, approdiamo a un villaggio in mezzo al nulla; i ritmi di qualcosa che ha tutta l’aria di essere tamburi suonati a festa ci attraggono come una calamita, e quella che in partenza doveva essere una camminata per occupare il tempo si è rivelata una delle esperienze più belle di tutta la spedizione.
La scena, dominata dai colori vivacissimi dei vestiti delle donne partecipanti, si presenta con un cerchio di sedie (circa un centinaio), circondate da gente di tutte le età, prevalentemente femmine.
Siamo invitati a prendere posto, e non ci resta che ammirare un vero e proprio spettacolo: le percussioni, consistenti in secchielli in plastica e insalatiere metalliche, scandiscono i passi della danza che si scatena all’interno del cerchio.
Mentre ci stiamo godendo la vista, Melania e Caterina vengono amichevolmente obbligate a partecipare alla festa, che si svolge a turni in cui le donne, senza un ordine preciso, si lanciano in mezzo a ballare per poi tornare a sedersi ai propri posti al termine del giro di battute.
Prima di essere gettate nella mischia, le nostre due intrepide ballerine vengono munite di gonna tradizionale, che agitano nel difficile tentativo di imitare le movenze delle altre partecipanti.
Un gesto eroico, a cui sfortunatamente Lorenzo e Giacomo non possono contribuire vista la esclusiva partecipazione di sole donne.
Prendiamo la via di casa, coscienti di aver visto un pezzo autentico della cultura senegalese. Il ritorno viene allietato ulteriormente da un carretto di passaggio, trasportante “quincaillèrie” (ferraglia) non meglio definita, che accoglie il nostro autostop con tanta felicità e poco posto sul carretto (abbiamo squarciato due paia di pantaloni per riuscire nell’impresa).
Ritorno a casa trionfale, con un bagaglio culturale che si arricchisce ogni giorno di più.
Mechkè - La preparazione del pranzo
Mechkè - Balli tradizionali
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